Il viaggiatore improbabile di Beppe Sebaste

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  1. mammaika
     
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    Il viaggiatore improbabile di Beppe Sebaste

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    Un po' pingue e apparentemente sedentario, Giorgio Manganelli diventa quasi per caso, uno dei grandi scrittori di viaggio innamorati dell'Oriente. Un luogo ideale che sarà simbolo di un'epoca.

    Quando andai in India la prima volta, accanto all'immancabile guida Lonely Planet, tra le decine di libri di viaggiatori, l'unico che mi fece vedere qualcosa, venendo incontro alla mia stupefatta apprensione, fu lo smilzo Esperimento con l'India di Giorgio Manganelli. Curioso twist of fate: il più improbabile dei viaggiatori, il più mentale e apparentemente autoreferenziale tra gli autori d'avanguardia, acrobata della lingua allenato al salto mortale lessicale, si è rivelato il più limpido e seducente degli "scrittori viaggiatori", capace di dire la verità e far vedere il mondo meglio di Bruce Chatwin, come forse soltanto il ginevrino Nicolas Bouvier. Ora di Manganelli arriva in libreria per Adelphi, a cura di Salvatore Silvano Nigro che ne firma la postfazione, la raccolta di scritti di viaggio cui lo stesso Manganelli lavorò fino a pochi mesi prima della scomparsa, nel 1990: Cina e altri orienti, stesso titolo del libro uscito da Bompiani nel 1974. Mancano solo i testi sul viaggio in India del 1975 nominato sopra, pubblicato da Adelphi nel 1992 a cura di Ebe Flamini, ma molti altri scritti sono stati aggiunti. Sappiamo che Manganelli, docente di letteratura inglese con tendenza alla pinguedine, scrittore visionario e nevrotico, fu convinto a viaggiare, staccarsi e avventurarsi nell'aperto, dal suo psicoterapeuta berlinese Ernst Bernhard. Pochi come lui fecero del viaggio un meraviglioso ossimoro, emblema della stessa magica assurdità dello scrivere: "Il problema del fare un viaggio" diceva "è che rischi di arrivare". Sua figlia Amelia mi ha ricordato anche le cartoline che durante i viaggi Manganelli spediva a se stesso: "Giorgio tieni duro!", "Resisti!".

    La svolta avvenne nel 1970 con un viaggio che non avrebbe potuto essere più prossimo alla psicanalisi, quasi una metafora dell'inconscio: l'Africa preculturale, primordiale, addirittura preumana, "ricordo di una possibilità di vita ancora esistente ma soffocata dalla civiltà". Traduttore e curatore documentario per una società costruttrice di autostrade, si trovò immerso in una terra che sintetizzava l'altrove del mito: "forse era così l'Europa di Lascaux", scrisse a Ebe Flamini.
    Il tabù era stato infranto. Un paio d'anni dopo accettò di accompagnare a Pechino a un'esposizione industriale una pletora di politici e operatori economici, quasi tutti padani dalle "rosse mani allevate a cotechini", che "credevano di arrivare in un paese, ed erano piombati nel cuore di una cerimonia". "Ogni viaggio è un simbolo, un'iniziazione: figuriamoci un viaggio in Cina", scrisse scoprendo a sua volta come l'oriente fosse in realtà "il segreto luogo di nascita dello stile". Manganelli si rivela il più gonzo (è un elogio) del cosiddetto gonzo journalism - quel modo di fare reportage da scrittori sapendo che l'obiettività si trova nella massima soggettività. Ma resta straordinario come riesca a conciliare l'alterità irriducibile di ciò che vede e incontra, luoghi e cose che spesso esigono un silenzio al limite della devozione, e la sfrenata, inarrestabile passione per il fraseggio infinito e sinuoso, barocco e quasi virtuosistico, ma sempre godibile. Credo che la risposta, e la sintesi di questi tratti in apparenza contraddittori, è nello scrigno inesauribile del suo reportage dall'India, che l'ormai navigato Manganelli traversò nel 1975, pubblicando sul settimanale il Mondo le sue cronache meravigliose e meravigliate: un viaggio teso a "cercare enigmi, emblemi, enteroideogrammi del sacro", come scrive Viola Papetti, amica e sodale del Manga, nel suo Gli straccali di Manganelli (Sedizioni 2013).

    Cina e altri orienti contiene reportage anche dall'Arabia, dall'Irak, dal Pakistan, dai paesi dell'Islam, da Taiwan, dalle Filippine, da Singapore e dalla Malesia (Paese, quest'ultimo, in cui fu incuriosito dai "sultani bianchi", i Brooke britannici "ora scomparsi", e in cui voleva - così propose al direttore della Bompiani - andare sulle tracce della loro inesistenza). In generale, il viaggio in Oriente di Manganelli è "un'esperienza dell'anima, degli occhi, un brivido culturale, un guado dell'intelligenza, un rivolgimento degli archivi mentali". Se della Cina e degli altri orienti estremi Manganelli descrive "il prestigio gestuale" dell'"ipnotica positura" del Buddha, che si deposita simbolicamente ovunque e crea zone di silenzio anche nel fragore di Bangkok, l'accoglienza dell'India - scrive - è invece viscerale, non necessariamente in senso figurato. La visceralità, scrive nel 1978 (nel libro Terza Appendice), è un'esperienza terribile, cioè prossima al sublime: "Noi non sappiamo più che cosa sono le viscere mentali di un mondo. In forza della sua visceralità, l'India non conosce l'orrore. È facile liberalizzare il sesso e la droga: più difficile liberalizzare gli escrementi. Ma dove voglio vedervi è a liberalizzare il Cottolengo. Fatevi una passeggiata dopo cena a Calcutta [...], in mezzo ad immagini umane che da noi si nascondono in solai inaccessibili. Chi non ha visto Calcutta - che è anche una città meravigliosa - non sa esattamente su quale pianeta viviamo. Ma dovunque viaggerete, in Asia, sentirete l'Europa come una bizzarra invenzione, una cosa impossibile, un ricordo maniacale, il tentativo di non sapere che cosa è esattamente essere vivi".

    Ho letto queste frasi di Manganelli su un comodo treno che attraversava forse troppo velocemente l'Italia da Roma a Trento, Toscana compresa, seduto di fianco a due anziani americani che guardavano dal finestrino il paesaggio italiano: a volte ameno, più spesso agricolo, costantemente costruito, saturo di attestazioni dell'esistenza dei geometri.
    A differenza dell'Asia, ma anche degli Stati Uniti dove si possono percorrere centinaia di chilometri senza vedere una casa, l'Italia mi sembrò a un certo punto un gigantesco "parco a tema", votato qui e là a un moderato svago culturale e a moderati divertimenti. L'Asia, scrive a un certo punto Manganelli, non è mai eufemistica perché convive letteralmente con la morte, e "la coscienza della provvisorietà della morte dà [...] un'indifferenza che per noi è intollerabile". Manganelli non scrive provvisorietà della vita, ma della morte, come a dire che la trascendenza è così massicciamente presente nella fisicità della vita, nell'immanenza, perché l'anima non muore. Forse è questo L'odore dell'India di cui scriverà anche Pier Paolo Pasolini. Che l'India fosse entrata nel cuore e nella mente di Manganelli, "ateo che vedeva il sacro dappertutto", me lo ha raccontato la figlia Amelia: la sua accettazione per tutto ciò che è diverso, deforme, mostruoso, fu la cifra del suo rapporto con quel Paese in cui i mostri non sono mai nascosti, ma esibiti e sacri.

    Opera di grande letteratura, Cina e altri orienti è un insegnamento magistrale sull'arte di viaggiare (scrittura compresa). Che non è l'affannoso spostarsi dei viaggiatori che "sporcano il mondo con carte unte", ma una sorta di ascesi, un "diventare riflesso, eco, corrente d'aria" (come scrisse Nicolas Bouvier in libri che sarebbero piaciuti a Manganelli), un paziente "diventare Nessuno" (come scrissero entrambi), vera avventura e ostinata passione di Ulisse.

     
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  2. tiziblu55
     
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    :)
     
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1 replies since 2/7/2013, 10:18   26 views
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